La meritocrazia può far emergere i nostri talenti o può rappresentare un rischio per il loro sviluppo?

In una società meritocratica, chi occupa certe posizioni pensa di essersi guadagnato il successo grazie al proprio talento e al duro lavoro. Ma in una società caratterizzata da disuguaglianze, questo pensiero ha sempre ragione di esistere?

Michael J. Sandel affronta questo tema nel suo libro La tirannia del merito – Perché viviamo in una società di vincitori e di perdenti, illustrando in che modo il significato di “merito” è stato riformulato negli ultimi decenni, in forme che erodono la dignità del lavoro e lasciano che molte persone si sentano giudicate dall’alto in basso.

L’idea di una società che ricompensa in base al merito è attraente. Dà un’immagine di equità, rinnega la discriminazione e afferma un’idea di libertà. Dall’altro lato, però, l’enfasi sulla creazione di un’equa meritocrazia ha un effetto corrosivo sul modo in cui interpretiamo il nostro successo, o la sua mancanza. Quanti stanno ai vertici si compiacciono di essersi meritati il proprio destino, così come sono convinti che quanti stanno in basso si sono meritati il loro.

 

Ma è sempre vero che chi sta al vertice ha più talento di altri?

Far emergere certi talenti non sempre è solo agire nostro. Il talento è il prodotto di competenze ed esperienze, abbinato alla motivazione e all’opportunità. E quando l’opportunità non c’è? L’idea dell’etica meritocratica è che non meritiamo di essere ricompensati o di essere tenuti indietro sulla base di fattori al di fuori del nostro controllo.

Il principio del merito quindi può diventare tirannico, non soltanto quando le società non riescono a rispettarlo ma, paradossalmente, soprattutto quando pensano di rispettarlo, cadendo in quello che Sandel chiama credenzialismo. La promessa di essere padroni di se stessi e di farsi da sé, porta un fardello difficile da sopportare: attribuisce un grande peso all’idea di responsabilità individuale, quando in realtà la disuguaglianza sociale incide in modo significativo e non è sempre vero che meritiamo ciò che otteniamo e che l’impegno e il duro lavoro ci possono sempre portare lontano.

Negli ultimi quarant’anni, anche se la disuguaglianza si è diffusa in vaste proporzioni, la cultura pubblica ha rafforzato l’idea che noi siamo i soli responsabili del nostro destino. Quasi come se i “vincitori” avessero bisogno di persuadere se stessi. In realtà il problema vero non è l’inadeguatezza del lavoratore, ma l’inadeguatezza del potere del lavoratore.

 

Sandel invita a prendere sul serio questo lato oscuro dell’età del merito e, in questo libro, offre una strategia teorica e politica per ripensare il bene comune. Cosa che, nel nostro piccolo, possiamo fare nelle aziende e organizzazioni nelle quali lavoriamo.

 

 

Tratto dal testo: Michael J. Sandel, La tirannia del merito – Perché viviamo in una società di vincitori e di perdenti

A cura di: Andrea Bennardo

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