Alla ricerca di un umanesimo digitale

Restare persone in un mondo governato dagli algoritmi

 

Un rider sfreccia lungo le strade della città, illuminato dalla luce dei lampioni che accompagnano la sua corsa. Un’immagine del progresso: la comodità di ordinare con un click e vedersi recapitare a casa la cena, senza preoccuparsi di nulla. Ma è realmente un progresso?

Antonio Aloisi e Valerio De Stefano hanno realizzato a quattro mani il libro Il tuo capo è un algoritmo – contro il lavoro disumano, nel quale parlano delle imprese della gig-economy, dell’impatto che le tecnologie digitali hanno sulle politiche del lavoro e sui processi di gestione delle risorse umane.

Nel modello di business delle piattaforme che propongono l’incrocio tra domanda di servizi e l’offerta di una prestazione professionale, viene alimentato il falso mito dell’autoimprenditorialità, ma non può essere considerato CEO, nemmeno di sé stesso, chi è tenuto a rispettare turni e condizioni poste da altri, pena l’esclusione dalla piattaforma. I rider vengono schedati attraverso una classifica interna, che tiene conto di velocità, numero di consegne e soddisfazione del cliente, e possono essere “licenziati” solo “sloggandoli” dal sistema, applicando condizioni contrattuali stabilite unilateralmente dalle app. Dove va a finire il rispetto per la dignità del lavoratore?

Le criticità non riguardano solo i fattorini del delivery. Gli algoritmi gestiscono una grande quantità di attività diverse.

In ambito aziendale, selezione e gestione del personale sono spesso affidate a dei software. Con l’introduzione dell’algorithmic hiring e delle tecniche di workforce analytics, le persone sono diventate numeri. Stiamo andando verso una “società a punti”, nella quale l’uso di dati e metriche rischia però di diventare controproducente. In fase di selezione, il filtraggio è affidato a una scatola nera che colleziona informazioni e offre soluzioni sulla base di parole chiave con il rischio di creare così una monocultura aziendale. È un subdolo processo irreversibile di omogeneizzazione. In fase di misurazione della produttività, la valutazione costante si fonda su parametri arbitrari, e la pressione a cui è sottoposto il lavoratore rischia di ridurre le prestazioni, invece di migliorarle.

Pare che, invece di “rubare” il nostro lavoro, le tecnologie si siano accaparrate quello del nostro capo.

Gli algoritmi sono programmati per ricevere un compito e portarlo a termine nel modo più efficace possibile, a scapito della flessibilità tipica degli esseri umani. Sono imbattibili nella capacità di introiettare pregiudizi perché la progettazione di un software riflette la cultura e la visione di coloro che li creano. Se i dati forniti riflettono pratiche discriminatorie, saranno discriminatori anche i risultati. Come ha scritto la programmatrice Cathy O’Neil, gli algoritmi non sono altro che “opinioni infilate nella matematica”.

Per interagire con un sistema che non conosce il bilanciamento di valori e principi, carente di pensiero critico e di intelligenza relazionale e sociale, è necessario ricorrere agli strumenti appartenenti al campo del diritto, azionando tutte le leve giuridiche a disposizione. Tra l’utilizzo dei big data e le schiere di freelance fantasma sottopagati che vengono “utilizzati” per moderare i contenuti, c’è ancora tanto lavoro da fare.

Affinchè la tecnologia possa migliorare la qualità della vita e del nostro lavoro, è necessario affrontarla con spirito critico per comprendere se e come possa essere di supporto alle nostre attività. Per rinnovare il nostro sistema di welfare, la speranza è che l’innovazione tecnologica possa venire controllata, in un percorso di negoziazione che coinvolga le parti sociali e i diretti interessati, accrescendo la trasparenza e mettendo l’umano al primo posto.

 

 

 

Tratto dal testo: Antonio Aloisi e Valerio De Stefano, Il tuo capo è un algoritmo – contro il lavoro disumano

A cura di: Andrea Bennardo

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